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I corpi lasciati indietro

 

Jeffery Deaver ci riprova con I corpi lasciati indietro (titolo originale, The bodies left behind). Dopo il flop di Nero a Manhattan, arriva anche in Italia questo suo ultimo romanzo thriller, molto apprezzato in America e finalista ai Thriller Award 2009.

La trama del libro è questa:

    Una notte di primavera in una piccola città nel Wisconsin… Una chiamata di emergenza alla polizia da una casa presso un lago lontano è chiusa bruscamente… Uno scherzo telefonico o una denuncia di reato interrotta? La vicesceriffo Brynn si spinge fino al Lago di Mondac per scoprirlo e si ritrova davanti una scena agghiacciante: Emma e Steven Feldman senza vita sul pavimento, assassinati a colpi di arma da fuoco. Prima di poter chiamare rinforzi, però, si ritrova come prossima vittima potenziale. Privata del suo telefono cellulare, di armi e auto, Brynn e un’improbabile alleata – una superstite della carneficina – possono sopravvivere solo con la fuga in un bosco fitto e deserto, in una disperata corsa per la salvezza.


Silenzio.
I boschi attorno al lago Mondac erano più tranquilli che mai, ben lontani dalla metropoli caotica e in conti­nuo fermento in cui la coppia viveva.

Un silenzio perfetto, rotto solo dal verso di un uccello e dall'ipnotico gracidare di una rana.
E ora anche da un altro rumore.

Un fruscio di foglie smosse, un crepitio di rami spezzati.
Dei passi, forse?
No, impossibile. Nelle altre case di villeggiatura non c'era nessuno in quel freddo venerdì di aprile.

Emma Feldman, che aveva superato di qualche anno la trentina, posò il suo martini sul vecchio tavolo da cuci­na e si alzò in piedi. Si sistemò dietro l'orecchio una cioc­ca di capelli, neri e ricci, e si avvicinò a una finestra. Non vide nulla, tranne la fitta distesa di cedri, ginepri e abeti sul fianco della ripida collina disseminata di rocce simili a frammenti di ossa gialle.

II marito inarcò un sopracciglio. «Cos'era?»
Lei alzò le spalle e tornò al tavolo. «Non lo so. Non c'era niente.»

Fuori, di nuovo il silenzio.

Emma era sottile come le betulle bianche e spoglie che si potevano ammirare dalle tante finestre della casa. Si tolse la giacca blu: sotto, indossava una camicetta bianca e una gonna dello stesso colore. Aveva i capelli raccolti in uno chignon. Abito da avvocato, acconciatura da avvo­cato. Si era appena tolta le scarpe.

 

Anche Steven, ora intento a ispezionare il mobiletto del bar, si era liberato della giacca e della cravatta a righe stropicciata. Trentasei anni, una chioma folta e ribelle, portava una camicia azzurra e un paio di ampi pantaloni blu navy. La pancia sporgeva inesorabile al di sopra della cintura dei pantaloni. A Emina non importava; lei lo tro­vava comunque attraente.

«Guarda cos'ho portato» ridacchiò Steven, indicando con un cenno la stanza degli ospiti al piano di sopra, men­tre estraeva da una sporta una grossa bottiglia di succo ve­getale biologico. Un'amica di Chicago avrebbe fatto loro compagnia quel fine settimana. Purtroppo si era da poco lasciata sedurre dalle diete liquide e si nutriva quasi esclu­sivamente di disgustosi beveroni macrobiotici.

Emma lesse l'etichetta degli ingredienti e storse il naso. «Glielo lascio volentieri e mi tengo la vodka.»
«Ecco perché ti amo tanto.»

Come spesso accadeva, la casa si riempì di scricchiolii sinistri. Era vecchia di settantasei anni e, come tutte le case risalenti a quel periodo, era costruita prevalentemen­te di legno. La cucina era ad angolo, rivestita da un caldo legno di pino quasi ocra, con le listelle del pavimento che si alzavano qua e là. La strada privata ospitava altre due ville in stile coloniale, entrambe circondate da un appcz­zamento di circa dieci acri. Le si poteva definire proprietà fronte-lago, ma solo perché il lago lambiva la sponda roc­ciosa a duecento metri dalla porta d'ingresso.

La loro casa si stagliava su una piccola radura sul ver­sante orientale di un'alta collina. Di solito la gente del Midwest non osava definire «montagne» le colline del Wi-sconsin, anche se, nella maggior parte dei casi, superava­no i duecento metri d'altitudine. In quel momento la grande casa era inondata dalla luce azzurrognola del tardo pomeriggio.


Emma fissò le acque increspate del lago, infuocate dai riflessi del sole sulla via del tramonto. Adesso, all'inizio

della primavera, quel posto aveva un'aria arruffata e tra­scurata, un po' come il pelo bagnato di un cane da guar­dia. La casa era molto al di sopra delle loro possibilità eco-nomiche. Era stata pignorata e messa in vendita e loro l'a­vevano acquistata a un prezzo d'occasione: dal primo mo­mento in cui l'aveva vista, Emma aveva capito che sareb­be stata perfetta per le loro vacanze.

Silenzio.

 

 

 


Aveva una storia alquanto pittoresca, quella villa. Era stata costruita prima della Seconda guerra mondiale dal proprietario di una grossa società di macellazione di Chi­cago. Anni dopo si era scoperto che il ricco magnate aveva fatto fortuna vendendo consistenti lotti di carne al mer­cato nero ed eludendo il sistema di razionamento che li­mitava il consumo di cibo in patria per sfamare le trup­pe. Nel 1956 il corpo dell'uomo era stato rinvenuto nel lago. Si diceva che fosse rimasto vittima di alcuni vetera­ni che avevano scoperto il raggiro e lo avevano ucciso, per poi perquisire la casa alla ricerca dei proventi illeciti che vi aveva nascosto.

La leggenda, nelle sue diverse versioni, non faceva mai riferimento alla presenza di fantasmi, ma Emma e Steven non resistevano all'idea di romanzarla un tantino. Quan­do avevano ospiti raccontavano la storia con dovizia di particolari macabri e osservavano divertiti le reazioni dei loro amici: quasi nessuno, poi, osava spegnere la luce del bagno e avventurarsi al buio.

Fuori, si udirono altri due rumori secchi, poi un terzo.

Emma si accigliò. «Hai sentito? Di nuovo.»
Steven si avvicinò alla finestra. Un vento leggero sof­fiava tra i rami. Si voltò e tornò a occuparsi dei drink.

Lo sguardo di Emma vagò per la stanza e cadde sulla ventiquattrore.

«Beccata!» esclamò il marito in tono di rimprovero.
«Cosa?»
«Non provare nemmeno ad aprirla.»

Lei fece una risatina forzata e scrollò le spalle.

«Un fine settimana di assoluto relax, niente lavoro» la ammonì Steven. «Questi erano gli accordi.»
«E là dentro cosa c'è?» chiese Emina mentre armeg­giava con un barattolo di olive, facendo un cenno con il capo in dirczione dello zaino che il marito aveva portato al posto della ventiquattrore.
«Due oggetti rilevanti ai fini del processo, Vostro Onore: il mio romanzo di Le Carré e la bottiglia di rner-lot che avevo in ufficio. Desidero addurre quest'ultima come prova...»

 

Si interruppe di colpo. Si voltò verso la fi­nestra, oltre la quale si intravedeva un groviglio di cespu­gli, alberi, rami e rocce biancastre.
Anche Emma guardò fuori.
«Questo sì che l'ho sentito» esclamò Steven riempien­dole di nuovo il bicchiere. Lei aggiunse le olive ai drink.
«Che cos'era?»
«Ti ricordi di quell'orso?»
«Be', non si è mai avvicinato alla casa.» Brindarono e sorseggiarono il cocktail trasparente.
«Sembri preoccupata. Cosa c'è? È per il caso del sin­dacato?»
Le indagini per l'acquisizione di una società avevano portato alla luce possibili intrallazzi interni al sindacato dei portuali di Milwaukee. Dopo l'intervento governati­vo, l'acquisizione aveva subito un rinvio, provocando lo scontento di tutte le parti in causa.
«No, si tratta di un altro caso. Quel nostro cliente che produce componenti per auto» rispose lei.
«Kenosha Auto, giusto? E tu che mi rimproveri sem­pre di non ascoltarti quando parli di lavoro!»

Emma guardò stupita il marito.

«Be', è saltato fuori che l'amministratore delegato è un emerito cretino.» Gli spiegò di un caso di morte dolosa causata dai componen­ti del motore di un'auto ibrida: un incidente davvero sin­golare, un passeggero rimasto fulminato. «Il responsabile del reparto Ricerca e sviluppo... be', ha preteso che re­stituissi tutti i file tecnici.

Pensa un po'.»
«A dire il vero, preferivo l'altro caso, quello sulle ulti­me volontà e il testamento del rappresentante di Stato... la storia di sesso» osservò Steven con una smorfia.


«Shhhh» fece lei, fingendosi preoccupata. «Ricorda, non ne ho mai fatto parola.»
«Tranquilla, sono muto come un pesce.»

Emma infilzò un'oliva e la portò alla bocca. «E la tua giornata com'è andata?»

Steven rise. «Ti prego... Non mi pagano abbastanza per parlare di lavoro fuori orario.» I Feldman erano uno sfa­villante esempio di appuntamento al buio coronato dal successo, nonostante tutte le avversità. Quando si erano incontrati, Emma era una promettente studentessa di legge dell'Università del Wisconsin, rampolla di una delle famiglie più ricche di Milwaukee; Steven invece si era ap­pena diplomato in Storia dell'arte e voleva lavorare nel sociale. Gli amici avevano dato loro sei mesi al massimo. Il matrimonio si era celebrato nella Contea di Door esat­tamente otto mesi dopo il primo incontro. Ovviamente, tutti gli amici erano stati invitati.

Steven estrasse un triangolo di brie da una sporta, trovò i cracker e li aprì.
«Oh, d'accordo, solo un assaggio» concesse Emma.

Tump, tump, tump...

Il marito si immobilizzò all'istante. «Tesoro, questi ru­mori iniziano ad allarmarmi. Quelli erano passi.»

Le tre ville si trovavano a tredici chilometri dal nego­zio e dal benzinaio, e a poco più di un chilometro dalla strada provinciale, raggiungibile da un sentiero sterrato che, in realtà, non era che un viottolo. Il parco nazionale Marquette, il più grande del Wisconsin, inglobava gran parte dei terreni della zona. Il lago Mondac e le case co­stituivano in effetti un'enclave di proprietà private.
Molto private.

E molto isolate.
Steven entrò nel locale stireria, scostò la consunta tenda beige e scrutò, oltre i rami di magnolia potati di recente, il giardino laterale. «Niente, credo che...»
Emma cacciò un urlo.

«Tesoro!» gridò il marito.

Qualcuno li stava osservando dalla finestra sul retro. L'uomo aveva infilato una calza sulla testa, ma si poteva­no distinguere comunque i capelli biondicci tagliati a spazzola e un tatuaggio dai colori vivaci sul collo. Indos­sava un giaccone verde militare. Dalla sua espressione, sembrava quasi sorpreso di trovarseli a una distanza tanto ravvicinata. Bussò sul vetro. Imbracciava un fucile da cac­cia con la canna sollevata e sorrideva enigmatico.

«Oddio» sussurrò Emma.
Steven estrasse il cellulare, lo aprì, digitò un numero e disse: «A lui penso io. Tu chiudi a chiave la porta».

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