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L'ultima cospirazione


Cotton Malone, ex-agente operativo del dipartamento di Giustizia americano, si è da tempo lasciato alle spalle una vita costellata da pericoli e aguati, decidendo di trasferirsi a Copenhagen, dove gestisce una libreria antiquaria.

Un'esistenza tranquilla,
 che però viene sconvolta quando il suo ex-superiore, Stephanie Nelle, giunta in Danimarca per una breve vacanza, cade vittima di uno scippo e il ladro, poco dopo, muore in circostanze misteriose.

Malone allora segue Stephanie
 a un'asta di libri antichi e lì scopre la ragione del viaggio della donna: acquistare un volume -apparentemente senza valore-, che tuttavia viene aggiudicato a qualcun altro, disposto a pagare una cifra esorbitante per impadronirsene. 

 

L'Ultima Cospirazione.

Trama.


A questo punto, Stephanie è costretta a rivelare a Malone la verità: sta ricostruendo una catena di indizi rinvenuti dal marito, uno studioso di esoterismo morto alcuni anni prima, e quel libro è la tessera fondamentale di un puzzle che dovrebbe risolvere il mistero del paesino francese di Rennes-le-Chateau e, di conseguenza, del mitico tesoro scomparso dei Cavalieri Templari.

 Una scena del crimine che sarebbe entrata nella storia del crimine svedese. Un intero villaggio viene battuto casa per casa dalla polizia, ma si trovano soltanto dei cadaveri. Diciannove persone, per lo più coniugi anziani sorpresi nel sonno, un ragazzino di circa dodici anni con una gamba martoriata dopo l’assalto di un lupo, ma anche cani, gatti, persino un pappagallo, tutti uccisi a coltellate. Ma è ormai ovvio che Stephanie non è l'unica a voler far luce sull'enigma che circonda il luogo in cui sarebbero custoditi numerosi testi segreti, proibiti dalla Chiesa, e immense ricchezze.

Lo dimostra la spirale d'intrighi e di morte che si dipana all'instante intorno a lei e a Malone, e che sembra aver origine proprio da un'antica cospirazione legata ai Templari.

Perchè, dietro innumerevoli leggende e tracce elusive, si cela un segreto che può cambiare il corso della Storia...

Dopo il successo ottenuto in tutto il mondo con Il terzo segreto, Steve Berry ha scritto questo nuovo thriller che ruota intorno al tesoro scomparso dei Cavalieri Templari e al mistero del paesino francese di Rennes-le-Château.


Al centro del romanzo si muovono i due protagonisti Cotton Malone, ex agente operativo del Dipartimento di Giustizia americano trasferitosi a Copenaghen per ricostruirsi un’esistenza più tranquilla, e Stephanie Nelle che giunge invece in Danimarca per una missione che non ha nulla a che vedere con la sicurezza nazionale.

Cotton gestisce una libreria antiquaria e
 la sua vita viene rivoluzionata quando la sua ex dirigente Stephanie lo coinvolge in un’intricata vicenda che inizia con uno scippo davanti alla sua libreria e che prosegue con una lunga catena di suicidi, agguati e avventure ad altissimo rischio.

Cotton segue Stephanie
 a un’asta di libri antichi e lì scopre la ragione del viaggio della sua ex superiore: acquistare un volume dal titolo “Pietre incise della Linguadoca” che però viene aggiudicato, per una cifra esorbitante di denaro, a qualcun altro. Cotton non sta più nella pelle. Vuole vederci chiaro.

E viene a sapere che Stephanie in realtà sta indagando sulla morte del marito
, uno studioso di esoterismo scomparso undici anni prima in circostanze misteriose, e che proprio quel libro costituisce la tessera fondamentale di un puzzle storico-religioso troppo scottante per essere svelato.

E’ ormai chiaro che Stephanie e Cotton
, quest’ultimo ripiombato completamente in quel mondo d’azione e spionaggio che avrebbe voluto lasciarsi alle spalle, non sono gli unici a voler far luce sull’enigma del libro che rimanda al paesino francese di Rennes-le-Château e del mitico tesoro scomparso dei Cavalieri Templari. Dove sono custoditi quei testi segreti proibiti dalla Chiesa?

E le immense ricchezze ad essi collegate?
 Intorno ai due protagonisti si sviluppa una spirale d’intrighi e di morti che sembra proprio legata ai Templari. Perché il segreto che viene celato potrebbe davvero cambiare il corso della storia dell’Occidente cristiano.
 
L'ultima cospirazione, una spirale d'intrighi e di morte legata ai Templari.Twitta

Parigi, Francia, gennaio 1308

  Jacques de Molay sapeva che la salvezza non gli sarebbe mai stata offerta, perciò anelava la morte. Era il ventiduesimo maestro dei Poveri Soldati di Cristo e del Tempio di Salomone, un ordine religioso al servizio di Dio da duecento anni. Ma da tre mesi lui, come altri cinquemila confratelli, era un pri­gioniero di Filippo IV, re di Francia.

 «Alzatevi», ordinò Guillaume Imbert, dalla porta.

 De Molay rimase sul letto.

 «Siete arrogante persino dinanzi alla vostra dipartita», commentò Imbert.

 « L'arroganza è tutto ciò che mi resta. »

 Imbert era un individuo spietato. E de Molay aveva notato che la sua faccia da cavallo era sempre impassibile, come quel­la di una statua. Era il Grande Inquisitore di Francia, nonché confessore personale di Filippo IV, e ciò significava che il re gli dava ascolto.

 De Molay si era più volte domandato cosa, a parte la soffe­renza, desse piacere a quel domenicano. Tuttavia sapeva cosa lo irritava.
 

 « Non farò niente di ciò che voi desiderate. »
 « Avete già fatto più di quanto crediate. »

 Era vero. Per l'ennesima volta, de Molay deprecò la sua de­bolezza. Nei giorni successivi agli arresti avvenuti il 13 otto­bre, le torture di Imbert erano state brutali e molti confratelli avevano « confessato ». De Molay si sentì stringere il cuore al ricordo delle sue stesse ammissioni: i nuovi accolti nell'Ordine rinnegavano il Signore Gesù Cristo e sputavano su una croce in segno di disprezzo nei Suoi confronti... Poi anche lui era crollato e aveva addirittura scritto una lettera in cui esortavai confratelli a confessare. Un numero considerevole di loro aveva obbedito.

 Eppure, soltanto pochi giorni addietro, gli enussan di Sua Santità Clemente V erano infine arrivati a Parigi. Era ben noto che Clemente era un burattino nelle mani di Filippo e questo era il motivo per cui l'estate precedente, quand'era venuto in Francia, de Molay aveva portato con sé molti fiorini d'oro e dodici cavalli da soma carichi d'argento. Se le cose fossero an­date male, quel denaro sarebbe stato usato per comprare il fa­vore del sovrano. Ma de Molay aveva sottovalutato l'avidità di Filippo, fl re non si era accontentato di un semplice tributo: voleva tutto ciò che l'Ordine possedeva. Così era stata lanciata un'accusa di eresia e, in un solo giorno, migliaia di templari erano stati arrestati. De Molay aveva parlato delle torture agli emissari del papa e aveva pubblicamente ritrattato la sua con­fessione, pur sapendo che ciò avrebbe avuto gravi conseguen­ze per lui. Così disse: « Immagino che Filippo cominci a teme­re che il papa abbia una spina dorsale».

 « Non è saggio insultare le persone che vi tengono prigio­niero », osservò Imbert.

 « E cosa sarebbe saggio? »

 «Fare ciò che noi vogliamo. » 1 «E poi cosa risponderò al mio Dio?»

 « Il vostro Dio attende che voi, e tutti gli altri templari, ri­spondiate a noi», replicò Imbert, col suo solito tono metallico, che non tradiva la minima traccia d'emozione.

 De Molay non voleva più discutere. Negli ultimi tre mesi aveva sopportato interrogatori continui, e gli era stato impedi­to di dormire. Era stato messo ai ferri, coi piedi unti di grasso e tenuti vicino alla fiamma, disteso su un traliccio. L'avevano perfino costretto ad assistere mentre carcerieri ubriachi tortu­ravano altri templari, la maggioranza dei quali erano semplici fattori, diplomatici, contabili, artigiani, marinai e scrivani. Pro­vava vergogna per ciò che era stato costretto a dire e non in­tendeva piegarsi ad altro. Giacque sul letto maleodorante e sperò che i suoi carcerieri se ne andassero.

 L'altro fece un gesto. Due guardie entrarono nella stanza e tirarono in piedi de Molay.


 « Portatelo nella cappella », ordinò Imbert.

 De Molay era stato arrestato al Tempio di Parigi e lo tene­vano lì dal mese di ottobre. L'alto edificio con quattro torrette d'angolo era un quartier generale dei templari - un centro fi­nanziario - e non aveva camere di tortura. Imbert ne aveva improvvisato una, trasformando la cappella in un luogo di sofferenze inimmaginabili... Un luogo che de Molay aveva vi­sitato spesso, negli ultimi tre mesi.

 De Molay fu trascinato là e spinto al centro del pavimento in mattonelle bianche e nere. Molti confratelli erano stati ac­colti nell'Ordine sotto quel soffitto dipinto di stelle.

 «Mi è stato riferito che qui dentro tenevate le vostre ceri­monie più segrete », disse Imbert. n domenicano, avvolto nella sua tonaca nera, si diresse verso un lato della lunga sala, ac­canto a una cassa cesellata che de Molay conosceva bene. «Ho esaminato il contenuto di questo sarcofago. Contiene un teschio umano, due omeri e un sudario funebre. Curioso, non trovate? »

 De Molay non replicò, pensando alle parole che ogni postu­lante pronunciava quando veniva accolto nell'Ordine: Io soffri­rò tutto ciò che a Dio piacerà.

 « Molti vostri fratelli ci hanno rivelato come usavate questi macabri reperti. » Imbert scosse il capo. « Ecco a quali nefan­dezze si abbassa il vostro Ordine. »

 « Noi rispondiamo solo al nostro papa, come servi a un ser­vo di Dio », sbottò de Molay. « Lui solo può giudicarci. »

 « n vostro papa è un vassallo del mio signore. Lui non vi salverà. »

 Era vero. Gli emissari del papa si erano impegnati a riferire che de Molay aveva ritrattato la sua confessione, ma dubitava­no che ciò avrebbe potuto cambiare il destino dei templari.

 «Spogliatelo», ordinò Imbert. Il saio che de Molay indossava dal giorno del suo arresto gli fu strappato di dosso. Lui non fu troppo dispiaciuto di veder­lo gettare via, perché la stoffa lurida puzzava di feci e di orina. Ma la regola proibiva ai fratelli di mostrarsi nudi. Sapeva che l'Inquisizione privava spesso le sue vittime degli indumenti per colpirle nell'orgoglio, così disse a se stesso che non si sarebbe lasciato avvilire dall'atto offensivo di Imbert. A cinquantasei anni, il suo fisico era ancora muscoloso. Come tutti i ca­valieri suoi confratelli, si prendeva buona cura della sua salu­te. Si tenne eretto, facendo appello alla dignità, e con calma chiese: « Perché vengo umiliato in questo modo? »


 « Cosa volete dire? » chiese Imbert di rimando, incredulo.
 « Questa cappella è un luogo di devozione, ma voi mi spo­gliate e guardate la mia nudità, sapendo che ogni confratello depreca una tale esibizione. »


 Imbert aprì il coperchio del sarcofago e ne estrasse un lun­go drappo di stoffa ripiegato. « Contro il vostro prezioso Ordi­ne sono state mosse dieci accuse. De Molay le conosceva tutte. Andavano dal disprezzo per i sacramenti all'adorazione di idoli pagani, dall'aver tratto pro­fitto da atti immorali alla tolleranza dell'omosessualità.


 «Quella che mi preoccupa di più è la vostra pretesa che ogni nuovo confratello rinneghi Cristo, Nostro Signore, e sputi sulla Santa Croce e la calpesti », disse Imbert. « Uno dei vostri confratelli ci ha perfino detto che alcuni orinavano sull'imma­gine di Nostro Signore Gesù in croce. È vero? »


 «Domandatelo a quel confratello. »
 «Sfortunatamente non è sopravvissuto all'interrogatorio. »


 De Molay non replicò.
 « II mio re e Sua Santità sono stati addolorati più da questa accusa che da tutte le altre. Senza dubbio, come uomo cui è stata impartita l'educazione religiosa, sapevate quanto li avrebbe contrariati scoprire che rinnegate Cristo come Nostro Salvatore. »


 «Preferisco parlare di questi argomenti soltanto col papa. Imbert fece un cenno e le guardie chiusero due bracciali di ferro intorno ai polsi di de Molay, poi si scostarono e gli fecero allargare le braccia, senza nessun riguardo per i suoi muscoli doloranti. Da sotto la tonaca, Imbert estrasse una frusta a mol­te corde. L'oggetto tintinnò, e de Molay vide che ogni corda aveva l'estremità d'osso. L'inquisitore abbattè la frusta sulle braccia protese e sulla schiena nuda del prigioniero. Il dolore ottenebrò la mente di de Molay e poi si ritrasse, lasciando dietro di sé una lucidità di cui non c'era sofferenza. Prima che le sue carni avessero il di riprendersi, arrivò un'altra frustata, poi un'altra ancora. Il templare non voleva dare soddisfazione a Imbert, ma il dolore lo sopraffece e lui lanciò un grido straziante.
 

« Non vi prenderete più gioco dell'Inquisizione. » De Molay cercò di controllare le sue emozioni. Si vergogna-i di aver gridato. Guardò gli occhi scintillanti dell'inquisitore i attese ciò che sarebbe accaduto. Imbert gli restituì lo sguardo. «Voi rinnegate il Nostro Sal­datore, affermando che era solo un uomo e non il figlio di Dio? commettete sacrilegio sulla Santa Croce? Molto bene. Ora predrete cosa significa sopportare la croce. La frusta calò di nuovo sulla schiena, sulle natiche, sulle I gambe. Le punte d'osso spaccavano la pelle e il sangue schizzava.

 Il mondo si confuse in una nebbia. Imbert interruppe la fustigazione. « Incoronate il maestro. » De Molay alzò la testa e cercò di mettere a fuoco lo sguardo. ! Ciò che vide sembrava un anello di ferro nero. Dalla circonfe-i senza interna spuntavano dei chiodi, con la punta piegata in alto e in basso.


 Imbert si avvicinò. « Ora saprete cos'ha sopportato il Figlio di Dio. fl nostro Signore Gesù Cristo, che voi e i vostri confra­telli avete dileggiato. » La corona gli fu messa sulla testa e premuta con forza. I chiodi si conficcarono nel cuoio capelluto e il sangue sgorgò I dalle ferite, inzuppandogli i capelli sporchi e sudati


Imbert gettò da parte la frusta. « Conducetelo alla porta. » De Molay fu trascinato attraverso la cappella fino all'alta porta di legno, solitamente aperta, che conduceva al suo allog­gio privato. In quel momento era chiusa. Uno sgabello fu po­sato al suolo davanti a essa, e lui dovette salirei sopra. Una delle guardie lo tenne dritto, mentre un'altra stava pronta in caso il templare opponesse resistenza. Ma de Molay era trop­po debole per provarci.I bracciali di ferro gli furono tolti. Imbert consegnò tre grossi chiodi a un'altra guardia. «Fate­gli alzare il braccio destro nel modo che abbiamo concordato. »

 Il braccio gli fu sollevato sopra la testa. Quando la guardia si avvicinò, de Molay vide il martello.
 E capì cosa intendevano fare.
 Dio misericordioso.


 Sentì una mano afferrargli il polso e la punta di un chiodo premere sulla carne sudata. Vide il martello sollevarsi. Poi udì il secco rumore del metallo contro il metallo. Il chiodo gli trapassò il polso e lui gridò.


 «Hai evitato le vene?» domandò Imbert alla guardia.
 «Non le ho toccate. »
 « Bene. Non deve morire dissanguato. »


 Quand'era un giovane confratello, de Molay aveva combat­tuto in Terrasanta, nei mesi in cui l'Ordine aveva opposto l'ul­tima resistenza nella città di Acri. Ricordava la sensazione che si provava nel ricevere una spada nella carne. In profondità. Con durezza. A lungo. Ma restare appeso a un chiodo confic­cato in un polso era assai peggiore.


 Il suo braccio sinistro venne sollevato all'altezza della spal­la e un altro chiodo gli fu martellato attraverso la carne del polso. Si morse la lingua, cercando di controllarsi, ma il dolore atroce gli fece stringere i denti con forza. Il sangue gli riempì la bocca e lui lo ingoiò. 


Imbert spostò lo sgabello con un calcio e tutto il peso del corpo di de Molay, alto un metro e ottantacinque, fece forza sui polsi, in particolare su quello destro, perché l'angolazione del braccio sinistro gli mandava sotto sforzo l'altro braccio, fi­no al punto di rottura. Qualcosa schioccò nella spalla, e la sof­ferenza gli trafisse il cervello come una lama.

Una delle guardie gli afferrò il piede destro e ne studiò la carne. Evidentemente Imbert si era preso la briga di scegliere con cura i punti d'inserimento, in modo che fossero lontani dai vasi sanguigni, n piede sinistro fu poi messo dietro il de­stro, ed entrambi vennero fissati alla porta con un solo chiodo. De Molay non aveva più la forza di gridare.


Imbert ispezionò il lavoro. « Poco sangue. Ben fatto. » Indie­treggiò di qualche passo. « Come ha sopportato il nostro Si­gnore e Salvatore, così sopporterete voi. Con una sola diffe­renza. »

Ora de Molay capì perché avevano chiuso la porta. Imbert i il catenaccio, aprì il battente facendo cigolare i cardini, e i richiuse con un tonfo.


Il corpo di de Molay fu sbattuto da una parte e poi dall'altra ondeggiando appeso ai chiodi e all'articolazione slogata. La sofferenza era indicibile. « Come sul tavolo della stiratura alla ruota, dove il dolore lò essere applicato per gradi, anche qui c'è un elemento di itrollo», spiegò Imbert. «Potrei lasciarvi penzolare immo-e. Oppure farvi ondeggiare avanti e indietro. O potrei sbat-Itere la porta come avete appena visto, che è la cosa peggiore. » n mondo appariva e spariva, e de Molay respirava a stento. ! 1 crampi gli torturavano ogni muscolo, n suo cuore batteva sel-l vaggiamente. n sudore gli scorreva sulla pelle e si sentiva co­me se avesse la febbre, con un'arsura che gli bloccava la gola. 


« Adesso vi prendete ancora gioco dell'Inquisizione? » do­mandò Imbert. Lui avrebbe voluto dirgli che odiava la Chiesa per ciò che gli veniva fatto. Un papa inetto, controllato da un monarca francese in bancarotta, aveva in qualche modo abbattuto la più grande organizzazione religiosa mai conosciuta dall'uo­mo. Quindicimila fratelli sparsi in tutta Europa. Novemila proprietà terriere. Un esercito di guerrieri che un tempo aveva dominato la Terrasanta e che esisteva da duecento anni. I Po­veri Soldati di Cristo e del Tempio di Salomone avevano sim­boleggiato tutto ciò che era buono e giusto. Ma il successo ave­va provocato l'invidia e, in qualità di maestro, lui si era reso conto della tempesta politica che infuriava intorno a loro. Avrebbero dovuto essere meno rigorosi, più ossequienti al po­tere politico, moderarsi nelle critiche. Grazie al cielo lui aveva previsto parte di ciò che era accaduto e perciò aveva preso al­cune precauzioni. Filippo IV non avrebbe mai visto un'oncia dell'oro e dell'argento dei templari.

E non avrebbe mai messo le mani sul più grande di tutti i tesori.


De Molay ricorse alle sue ultime stille di energia e alzò la testa. Imbert si accorse che stava per parlare e si fece più vi­cino.

« Che tu sia maledetto all'inferno », sussurrò il prigioniero. « Maledetto te, e tutti quelli che ti hanno aiutato nella tua cau­sa diabolica. »


La testa gli ricadde sul petto. Sentì il domenicano gridare alle guardie che facessero sbattere la porta, ma la sofferenza era così intensa e lo aggrediva da tante direzioni che tutto sfu­mò nel torpore. Lo stavano tirando giù. Non sapeva quanto tempo fosse rima­sto appeso, ma il rilasciarsi delle membra non gli portò sollie­vo, perché ogni muscolo era diventato insensibile. Fu portato di peso per qualche minuto e infine comprese di essere di nuovo nella sua stanza. I suoi carcerieri lo gettarono sul mate­rasso, e intorno a lui ci fu di nuovo il familiare puzzo di escre­menti. Gli misero la testa su un guanciale. Le sue braccia furo­no allargate ai lati.


« Mi è stato raccontato », disse con calma Imbert, « che, quan­do un nuovo fratello si presentava per essere accettato nel vo­stro Ordine, veniva avvolto in un sudario di lino. Questo sim­boleggiava la sua morte, prima di resuscitare a una nuova vita come templare. Anche voi ora avrete questo onore. Ho disteso sotto di voi il sudario che c'era nel sarcofago della cappella. » L'uomo prese la lunga pezza di stoffa, ai piedi di de Molay, e ne ripiegò l'altra metà sopra il suo corpo bagnato coprendogli anche il viso. « Mi è stato riferito che questo sudario era usato dall'Ordine in Terrasanta, e che fu portato qui per avvolgervi tutti gli iniziati, a Parigi. Ecco, ora siete resuscitato. Restate qui a meditare sui vostri peccati. Io tornerò. De Molay era troppo debole per replicare. Sapeva che mol­to probabilmente Imbert aveva ordinato di non ucciderlo, ma capiva anche che nessuno sarebbe venuto a prendersi cura di lui. Rimase a giacere immobile. Il torpore stava svanendo, so­stituito da una sofferenza atroce, fl cuore batteva come un tamburo e il suo corpo stava perdendo un'impressionante quantità di liquido sotto forma di sudore. Disse a se stesso che doveva calmarsi, immaginarsi qualcosa di piacevole. Ma riuscì soltanto a pensare a ciò cne i suoi carcerieri volevano.



Ma poi gli sovvenne un altro passaggio biblico, che portò i un po' di torpido conforto alla sua anima straziata. E mentre giaceva lì, coperto dal sudario e perdendo sudore e sangue da tutto il corpo, pensò al Deuteronomio. Lasciatemi solo, che io possa distruggerli. 


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