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L'Uomo che Sorrideva



Una fredda e buia sera di ottobre nel sud della Scania. L'avvocato Gustaf Torstensson sta tornando a casa dopo una visita a un cliente.

All'improvviso scorge una figura legata a una sedia al centro della strada. Con una brusca frenata evita la collisione.

Scende dall'auto, fa alcuni passi e viene colpito violentemente alla nuca. Il giorno successivo, l'avvocato viene trovato morto all'interno della sua macchina capovolta in un campo.
Nel frattempo, il commissario Kurt Wallander vaga irrequieto su una spiaggia a Skagen all'estremo nord della Danimarca. Da mesi è in preda a una forte depressione. Si sente finito, è deciso a porre termine alla sua carriera di poliziotto. Kurt Wallander, deciso a ritirarsi dalla sua attività di commissario di polizia di Ystad, è costretto a tornare in servizio per indagare sulla morte dell'avvocato Gustaf Torstensson, deceduto in circostanze misteriose in un incidente stradale.

La polizia, che in un primo momento aveva archiviato il caso come un normale incidente, inizia a sospettare di omicidio, allorquando il figlio di Torstensson, Sten, anch'egli avvocato, viene freddato con dei colpi di pistola nel suo ufficio legale.

Prima di morire Sten Torstensson aveva contattato Wallander per convincerlo ad occuparsi dello strano incidente occorso al padre. Ben presto l'acuto commissario si pone sulle tracce di un insospettabile magnate della finanza svedese, Alfred Herderberg, che gestisce i suoi affari dall'inaccessibile castello di Farnholm, cliente facoltoso dello studio legale e ultimo ad incontrare in vita Gustaf Torstensson.

Durante le indagini, la segretaria dello studio legale è destinaria di una mina antiuomo trovata nel suo giardino e lo stesso Wallander, assieme alla nuova collega in forze alla polizia di Ystad, Ann-Britt Hoglund, scampa per un soffio ad un attentato.

Il commissario deve inoltre indagare anche sul finto suicidio di Lars Borman, che aveva inviato agli avvocati, prima di morire, delle lettere minatorie. Il ritrovamento di uno strano contenitore nell'auto incidentata di Torstensson conduce sulla pista di un abietto traffico d'organi umani.

Trama.

La nebbia è come un animale da preda che si muove silen­ziosamente, pensò.Non riuscirò mai ad abituarmi. E questo anche se ho vissu­to tutta la mia vita nella Scania dove la nebbia circonda co­stantemente le persone e le rende invisibili.

Erano le nove di sera dell'11 ottobre 1993. La nebbia era avanzata rapidamente dal mare. Stava gui­dando per tornare a casa a Ystad e aveva appena passato Bròsarps Backar quando la sua auto si infilò dritta nel muro bianco del banco di nebbia. Immediatamente, sentì la paura crescere dentro di sé. Ho paura della nebbia, pensò. Invece dovrei avere paura dell'uomo che ho appena incontrato al castello di Farnholm. Quell'uomo cordiale con quei suoi collaboratori che incutono timore e che si muovono sempre discretamente facendo in modo che i loro volti rimangano nell'ombra.

Adesso che so quello che si nasconde dietro a quel suo sorriso di cittadino irreprensibile e al di sopra di ogni sospetto, dovrei pensare solo a lui. È lui quello che devo temere. Non la nebbia che sale silenziosa da Hanobukt. Adesso che so che quell'uomo non esiterebbe un attimo a uccidere chiunque cerchi di osta­colarlo. Presto fu costretto ad azionare il tergicristallo per eliminare In pillimi ili umidità dal parabrezza. Odiava guidare quando era buio. Il riflesso dei fari sull'asfalto non gli permetteva di distinguere le lepri che continuavano a tagliargli la strada. Gli era capitato di investire una lepre una sola volta.

Era successo trent'anni prima, una sera di primavera mentre gui­dava in dirczione di Tomelilla. Ricordava ancora il movimento istintivo e inutile del suo piede sul pedale del freno e subito dopo il colpo sordo contro la lamiera. Si era fermato ed era sceso dall'auto.

La lepre era stesa sull'asfalto con le zampe posteriori che si muovevano spasmodicamente. Il torso era paralizzato e la lepre continuava a tenere gli occhi fissi su di lui. Si era scosso e aveva raccolto una pietra sul ciglio della strada, l'aveva scagliata contro la testa dell'animale chiudendo gli occhi. Poi era tornato rapidamente all'auto senza voltarsi. Non aveva mai dimenticato gli occhi della lepre e il movi­mento delle zampe. Non era mai riuscito a liberarsi di quel­l'immagine. Gli tornava in mente in continuazione, spesso quando meno se lo aspettava.

Cercò di scacciare la sensazione di nausea. Una lepre morta da trent'anni può perseguitare un essere umano ma senza troppe conseguenze, pensò. Ho già abba­stanza da fare con quelle vive per occuparmi anche di quelle morte. Si accorse che istintivamente alzava lo sguardo sempre più spesso verso lo specchietto retrovisore. Ho paura, pensò nuovamente. Solo adesso mi sto rendendo conto che la mia è una fuga. Sto fuggendo perché adesso so quello che le mura del castello di Farnholm nascondono. E so anche che loro sanno che ho capito. Ma fino a che punto? Abbastanza perché possano temere che io possa venire meno al giuramento di mantenere il segreto professionale che ho prestato quando sono diventato avvocato tanto tempo fa? In un'epoca lontana quando i giuramenti erano ancora conside­rati un impegno sacro.
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È possibile che abbiano paura degli scrupoli di coscienza di un vecchio avvocato? Lo specchietto retrovisore continuava a rimanere buio. Era solo nella nebbia. In poco meno di un'ora avrebbe raggiunto Ystad. Per un attimo, a quel pensiero provò un senso di sollievo. Dunque non lo avevano seguito. Domani avrebbe deciso quel­lo che doveva fare. Avrebbe parlato con suo figlio che era anche suo collaboratore e socio dello studio legale. Nel corsodella sua vita, aveva imparato che esiste sempre una soluzione. Doveva essercene una anche questa volta. Con la mano, cercò la radio nel buio. La voce di un uomo che parlava di una nuova scoperta scientifica nel campo della genetica invase l'abitacolo. Le parole erano semplici suoni senza significato.

Guardò il quadrante dell'orologio, mancava­no pochi minuti alle nove e mezza. Lo specchietto retrovisore era ancora buio. La nebbia sembrava sempre più fitta. A di­spetto di questo aumentò leggermente la pressione sull'accele­ratore. Più la distanza dal castello di Farnholm aumentava, più si sentiva tranquillo. Forse, dopotutto, si era lasciato prendere inutilmente dall'angoscia.

Con uno sforzo cercò di pensare lucidamente. Come era iniziato tutto? Una normale conversazione telefo­nica, un messaggio scritto su un foglietto posato sulla sua scrivania, nel quale lo si pregava di mettersi in contatto con una persona per chiarire una questione d'affari urgente. Non conosceva la persona che aveva telefonato. Ma aveva chiamato ugualmente, un piccolo studio legale in una cittadina svedese insignificante non poteva permettersi di rifiutare un cliente alla cieca.

Ricordava ancora quella voce al telefono, raffinata, con la tipica intonazione dell'alta borghesia svedese, ma allo stesso tempo chiaramente la voce di un uomo che misurava la propria vita in termini di tempo prezioso. Aveva illustrato il suo caso, una transazione complicata che riguardava una so­cietà di navigazione con sede legale in Corsica e una serie di trasporti di forniture di cemento in Arabia Saudita dove una società rappresentava la Skanska, una delle più importanti imprese edili svedesi. L'uomo aveva fatto vaghi accenni a un progetto per una moschea gigantesca che avrebbe dovuto essere costruita a Khamis Mushayt. O forse si trattava di un'università a Gedda. Alcuni giorni dopo si erano incontrati all'hotel Continental nel centro di Ystad. Era arrivato in anticipo e il ristorante era ancora deserto, a parte un cameriere iugoslavo dall'espressio­ne triste che rimaneva con lo sguardo fisso su una delle grandi finestre. Era metà gennaio e un vento violento si era alzato dal Baltico e presto avrebbe iniziato a nevicare.

Ma l'uomo che si era avvicinato al suo tavolo era abbronzato, indossava un com­pleto blu scuro e non doveva avere più di cinquant'anni. In qualche modo sembrava una figura incongrua sia per il mese di gennaio che per Ystad. Si sarebbe detto un estraneo e in qualche modo il suo sorriso non aveva niente a che fare con quel suo volto abbronzato. Quello era il suo primo ricordo dell'uomo del castello di Farnholm. Un uomo apparentemente senza alcun legame, con un abito blu scuro fatto su misura, che si muoveva in un proprio universo, al cui centro era il sorriso e nel quale le ombre terrificanti di satelliti bui sembravano seguire un'orbita protettrice intorno alla sua persona. Già allora c'erano delle ombre. Non riusciva a ricordare che si fossero mai presentati. Si erano seduti a un tavolo ap­partato e, al termine dell'incontro, si erano alzati silenziosa­mente. L'occasione di una vita, pensò con amarezza.

Sono stato così stupido da pensare che potesse esistere. Il mondo imma­ginario di un avvocato non deve essere intorbidito dall'illu­sione di un paradiso in attesa, almeno non sulla terra. Dopo sei mesi, l'uomo abbronzato rappresentava la metà del fattu­rato dello studio legale e un anno dopo gli introiti erano rad­doppiati. I pagamenti venivano effettuati puntualmente e non era mai stato necessario inviare un solo sollecito. Tutto que­sto aveva persino permesso loro di fare restaurare da cima a fondo la casa dove avevano lo studio, e tutte le transazioni erano state oneste anche se complicate e non sempre facili da seguire.

L'uomo del castello di Farnholm sembrava impegna­to in affari in tutti i continenti, in luoghi che sembravano del tutto casuali. Spesso ricevevano fax e telefonate e, di tanto in tanto, anche messaggi radio da città sconosciute che riusciva a malapena a individuare sul mappamondo situato di fianco alla sua scrivania. Ma tutte le transazioni erano state ir­reprensibili anche se spesso nebulose e difficili da interpre­tare. Un momento d'oro, ricordava di avere pensato. È proprio questo. E professionalmente, devo essere eternamente grato al caso che ha fatto sì che l'uomo di Farnholm abbia scelto pro­prio il nostro studio sull'elenco telefonico. I suoi pensieri furono interrotti brutalmente. Per un attimo si era detto che era uno scherzo della sua immaginazione.

Ma non si era sbagliato, due fari erano apparsi nello specchietto retrovisore. L'auto era apparsa come dal nulla e ora era molto vicina. La paura lo attanagliò nuovamente. Dunque lo stavano se­guendo. Avevano pensato che potesse venire meno al suo giu­ramento di avvocato e iniziare a parlare. Il suo primo impulso fu di spingere sull'acceleratore e di dileguarsi nella nebbia. Aveva cominciato a sudare copiosa­mente. I fari erano sempre più vicini. Le ombre che uccidono, pensò. Non molleranno certamen­te la presa, non riuscirò a sfuggire al mio destino. In quello stesso momento, l'auto lo sorpassò. Intravide il volto grigio di un uomo anziano al di là del finestrino e poi le luci di posizione posteriori furono inghiottite dalla nebbia. Prese un fazzoletto dalla tasca e asciugò il sudore dal volto e dalla nuca.

Fra poco arriverò a casa, pensò. Non succederà nulla. Come sempre, la signora Dunér ha scritto sulla mia agenda che oggi avevo un appuntamento al castello di Farnholm. Nessuno, neppure lui manderebbe i suoi uomini a uccidere un vecchio avvocato che sta tornando a casa. Sarebbe troppo ri­schioso. Dovevano passare quasi due anni prima che si rendesse conto per la prima volta che c'era qualcosa di strano. Si era trattato di un incarico semplice, il controllo di contratti per i quali il Dipartimento per le esportazioni si era fatto garante per un totale di crediti considerevole. Pezzi di ricambio per turbine destinate alla Polonia e trebbiatrici per la Cecoslovac­chia. Era stato un dettaglio quasi insignificante, alcune cifre che improvvisamente non corrispondevano. Dapprima aveva pensato che si trattasse di un errore di trascrizione, forse solo due somme che erano state invertite. Ma controllando nuova­mente tutto dall'inizio, aveva dovuto constatare che l'errore non era affatto casuale, ma che era stato fatto di proposito.

Non mancava nulla e tutte le cifre erano corrette, a eccezione del risultato finale. Ricordava che era sera tardi e che si era appoggiato allo schienale della sedia rendendosi conto di ave­re scoperto una truffa. Dapprima non aveva voluto crederci. Ma alla fine non era riuscito a trovare altre spiegazioni plau­sibili. All'alba era uscito e aveva camminato per le strade deserte di Ystad. Arrivato nella piazza principale, si era ferma­to, riconoscendo che l'uomo del castello di Farnholm aveva commesso un reato. Truffa aggravata ai danni del Dipartimento per le esportazioni, frode fiscale e una serie di falsificazioni di documenti. Da quel momento, aveva costantemente cercato di indivi­duare i buchi neri in tutti i documenti che Farnholm mandava al suo studio. E li aveva trovati, non sempre, ma quasi. Len­tamente, era riuscito a farsi un quadro dell'entità del reato. A lungo aveva cercato di non credere ai propri occhi, ma alla fine non aveva avuto scelta.

Eppure non aveva reagito. Al contrario, aveva persino evi­tato di parlare della sua scoperta con suo figlio. Lo aveva fatto perché inconsciamente non voleva credere che fosse vero? D'altronde, nessun altro, né le autorità fiscali né altri, era riuscito a scoprire la truffa. Aveva forse scoperto un segreto che non esisteva? Oppure, forse era già troppo tardi sin dall'inizio? Sin dal giorno in cui l'uomo del castello di Farnholm era diventato il cliente più importante del suo studio legale? La nebbia era sempre più fitta. Ma pensò che forse si sareb­be diradata a pochi chilometri da Ystad. In quello stesso momento, capì che non avrebbe potuto continuare in quel modo. Ora sapeva che le mani dell'uomo del castello di Farnholm erano sporche di sangue. Doveva parlare con suo figlio. A parte tutto, la giustizia funzionava ancora in Svezia, anche se sembrava esitare e inde­bolirsi sempre di più. Il suo stesso silenzio era stato parte di quel processo. Il fatto che avesse nascosto la verità così a lungo non giustificava un suo ulteriore indugio. Non avrebbe mai avuto il coraggio di togliersi la vita.

Improvvisamente fu costretto a frenare bruscamente. Qualcosa era apparso nel fascio di luce dei fari. Dapprima aveva creduto che si trattasse di una lepre. Poi, si era reso conto che c'era qualcos'altro sulla strada fra la nebbia. Accese gli abbaglianti. Al centro della strada c'era una sedia. Una sedia senza schienale, forse uno sgabello, sul quale era seduto un manichi­no. Un manichino dal volto bianco. O forse era un essere umano che assomigliava a un mani­chino. Il cuore gli batteva irregolarmente. La nebbia sembrava inghiottire la luce dei fari. La sedia e il manichino erano reali quanto la paura paraliz­zante che lo attanagliava. Alzò nuovamente lo sguardo e fissò lo specchietto retrovisore. Solo un muro impenetrabile di nebbia buia. Lentamente guidò fino a circa dieci metri dal manichino. Poi fermò nuovamente l'auto. Il manichino sembrava un essere umano.

Non uno spaven­tapasseri piazzato a caso sulla strada.È stato messo lì per me, pensò. Allungò una mano tremante, spense la radio e rimase in ascolto. Intorno c'era solo silenzio. Non riusciva a prendere una decisione. Non era la sedia nella nebbia e neppure quel manichino spettrale che lo facevano esitare. C'era qualcos'altro, qualcosa non lontano che non riusciva a vedere. Qualcosa che forse era soltanto dentro di lui. Ho paura, disse nuovamente a se stesso. La paura mi impe­disce di pensare lucidamente. Alla fine si slacciò la cintura di sicurezza e aprì la portiera dell'auto. L'aria fredda e umida lo sorprese.

Scese dall'auto, con lo sguardo fisso sulla sedia e sul mani­chino illuminati dai fari. Aveva l'impressione di essere davanti a un palcoscenico in attesa che un attore facesse la sua com­parsa. Quello fu il suo ultimo pensiero.Poi udì un rumore dietro di sé. Ma non riuscì mai a voltarsi. Il colpo era stato diretto alla nuca. Quando il suo corpo si accasciò sull'asfalto umido era già morto. La nebbia era sempre più fitta. Mancavano sette minuti alle dieci
 
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