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Cell.

 
Boston, 1° ottobre. È un bel pomerìggio di sole e, per Clayton Riddell, una giornata magnifica. E pro­prio in quell'istante il mondo finisce.

A milioni, tut­ti coloro che hanno un cellulare all'orecchio impaz­ziscono improvvisamente, regredendo allo stadio di belve feroci. Un misterioso impulso irradiato dagli apparecchi distrugge infatti il cervello in un attimo, azzerando la mente, la personalità, migliaia di anni di evoluzione.

Al posto dell'homo sapiens ora c'è un branco di sanguinali subumani privi della paro­la. Ma presto costoro cominciano a mutare e a orga­nizzarsi. Insieme ad altri scampati, Clayton percor­re di notte le città svuotate, in preda a un pensiero fisso: salvare la moglie e il figlio, rimasti soli nel Maine in balia di un telefonino... e conquistare al­l'umanità il diritto di coesistere con la nuova specie dominante.

Un capolavoro del Re, dove la fantasia e la riflessione sui falsi miti del nostro tempo danno vita a una storia terribilmente plausibile.


La civiltà scivolò nella sua seconda era di tenebre su una prevedibile scia di sangue, ma a una velocità che nemmeno i futurologi più pessimistici avrebbero potuto pronosticare. Fu quasi come se non vedesse l'ora di finirci. Il primo giorno di ottobre, Dio era nel Suo para­diso, l'indice di Borsa era a 10,140 e quasi tut­ti gli aerei erano puntuali (eccetto quelli che at­terravano o decollavano da Chicago, e c'era da aspettarselo).

Due settimane dopo il cielo apparteneva di nuovo agli uccelli e il mercato azionario era un ricordo. A Halloween, tutte le metropoli del mondo, da New York a Mosca, puzzavano fino alle stelle e il mondo di prima era un ricordo.

Il fenomeno che in seguito avrebbe preso il nome di Im­pulso ebbe inizio alle 15.03 del 1° ottobre, ora di New York. La definizione era naturalmente imprecisa, ma a dieci ore dall'evento quasi tutti gli scienziati in grado di farlo notare erano o morti o impazziti. In tutti i casi il no­me contava poco. Quello che contava era l'effetto.

Alle tre di quel pomeriggio, un giovane di non partico­lare importanza per la storia scendeva per Boylston Street, a Boston, con un passo elastico che era quasi una danza. Si chiamava Clayton Riddell.

L'evidente espressione sod­disfatta che aveva sul viso s'accordava con la spigliatezza dell'andatura. Nella mano sinistra impugnava la maniglia di un portfolio da artista, di quelli che si chiudono con delle serrature a scatto e diventano una valigetta. Attorei­gliato alle dita della sinistra aveva il laccio di un sacchetto di plastica marrone sul quale, per chi si fosse preso il di­sturbo di leggerlo, c'era il logo piccoli tesori.

Sballottato nel sacchetto c'era un piccolo oggetto ro­tondo. Un regalo, si sarebbe pensato, e con ragione. Si sa­rebbe potuto ulteriormente azzardare che questo Clayton

 
Riddell fosse un giovanotto in procinto di festeggiare una piccola vittoria (o forse nemmeno tanto piccola) con un piccolo tesoro, e si sarebbe colpito di nuovo nel segno. La cosa nel sacchetto era un fermacarte di cristallo di non poco prezzo, al centro del quale era imprigionata la grigia nuvoletta di un soffione. Lo aveva comprato durante il tra­gitto di ritorno dal Copley Square Hotel alla molto più umile Atlantic Avenue Inn dove alloggiava, intimorito dal cartellino da novanta dollari legato alla base del fermacar­te e forse ancor più intimorito dalla consapevolezza che ora potesse permettersi un simile acquisto.

Consegnare la carta di credito al commesso aveva ri­chiesto un coraggio quasi fisico. Dubitava che ce l'avreb­be fatta se quel fermacarte fosse stato per sé; avrebbe bor­bottato di aver cambiato idea e sarebbe scappato dal negozio.

Ma era per Sharon, a Sharon piaceva quel genere di oggetti, e gli voleva ancora bene: Forza, piccolo, faccio il tifo per te, aveva detto il giorno prima della sua partenza per Boston. Considerato il modo di merda in cui si erano trattati l'un l'altro per un anno intero, le sue parole lo avevano commosso. Ora desiderava commuovere lei, se fosse stato ancora possibile. Il fermacarte era una piccola cosa (un piccolo tesoro), ma era sicuro che avrebbe gradito la delicata nuvoletta grigia dentro il cristallo, come un banco di nebbia in miniatura.

L'attenzione di Clay fu richiamata dallo scampanio di un furgone dei gelati. Era fermo di fronte al Four Seasons Hotel (che era ancor più sontuoso del Copley Square), dalla parte del Boston Common, che su quel lato della strada fiancheggiava la Boylston per due o tre isolati. Le parole mister softee, nei colori dell'arcobaleno, erano sovrapposte a una coppia di coni gelato danzanti. Tre bambini, con gli zaini posati per terra, erano in fremente attesa.

Alle loro spalle c'erano una donna in giacca e pan­taloni che teneva al guinzaglio un barboncino e due ragaz­ze con i jeans sotto l'ombelico, munite entrambe di iPod e di auricolare, ora appeso al collo per potersi parlare sotto­voce, senza risolini, di faccende assai serie.

Clay si fermò dietro di loro, trasformando quello che era stato un piccolo gruppo in una breve coda. Aveva com­perato un regalo alla moglie separata; prima di tornare a casa si sarebbe fermato da Comix Supreme a prendere l'ultimo numero di Spiderman per il figlio; poteva pensare un poco anche a sé. Non vedeva l'ora di dare la notizia a Sharon, ma non avrebbe potuto contattarla finché non fos­se rincasata, verso le quattro meno un quarto.

Pensava di trattenersi almeno fino al momento di parlarle, più , che altro passeggiando avanti e indietro negli angusti confini della sua stanzetta e lanciando occhiate al suo portafoglio chiuso. Nel frattempo Mister Softee gli offriva un accettabile diversivo.

Dietro di loro, nel parco, un cane abbaiò e qualcuno gridò. A Clay non sembrò un grido gioioso, ma quando si girò a guardare vide solo qualche passante, un cane che trotterel­lava stringendo tra i denti un frisbee (ma non devono esse­re al guinzaglio? si chiese), una distesa di verde soleggia­to e oasi di ombra invitante.

Gli sembrò un ottimo posto dove un uomo che aveva appena venduto il suo primo ro­manzo a fumetti - nonché il suo seguito, entrambi per una somma sbalorditiva - avrebbe potuto andare a sedersi a mangiare un cono di gelato al cioccolato.

Quando tornò a guardare dall'altra parte, i tre bambini se ne erano andati e la signora con l'abito da donna in car­riera stava ordinando una coppa guarnita. Una delle due ragazze dietro di lei aveva un telefonino rosa agganciato al fianco e la rampante in carriera aveva il suo incollato al­l'orecchio.

Come gli accadeva quasi ogni volta in cui era testimone di una delle mille varianti di quel comporta­mento, Clay riflette che stava assistendo a un gesto che, se fino a poco tempo prima sarebbe stato giudicato di una maleducazione quasi intollerabile, seppure nel corso di una marginale transazione con un perfetto sconosciuto, stava ormai diventando un'accettabile ricorrenza della quotidianità.

Mettilo in Dark Wanderer, tesoro, disse Sharon.


La Sharon che conservava nella mente parlava spesso ed era prevedibile che dicesse la sua. Tanto era vero anche della Sharon reale, con o senza separazione.

Non però chia­mandolo sul cellulare. Clay non l'aveva.

La proprietaria del telefono che squillava se lo staccò dal fianco e disse: «Beth?» Ascoltò, sorrise, poi disse all'arnica: «È Beth». Allora l'altra ragazza si sporse in avanti e ascolta­rono insieme, capelli corti e sfrangiati tutte e due, pettina­ture quasi identiche (a Clay sembravano quasi personaggi di un cartone del sabato mattina), accarezzati dallo stesso venticello pomeridiano.

«Maddy?» disse quasi contemporaneamente la donna in completo. Il suo barboncino era ora seduto in un atteg­giamento contemplativo all'estremità del suo guinzaglio (il guinzaglio era rosso con i brillantino, a osservare il traffico di Boylston Street.

Sull'altro lato della strada, al Four Seasons, un portiere in uniforme marrone - sembra­va che dovessero essere sempre o marrone o blu - agitava il braccio, probabilmente per fermare un taxi.

Un caratteristico anfibio Duck Boat, stipato di turisti, altìssimo e im­probabile sulla terraferma, veleggiò via con il conducente che gridava nel megafono qualcosa di argomento storico.

Le due ragazze che ascoltavano il telefonino color menta si guardarono e sorrisero per qualcosa che stavano uden­do, però ancora senza ridacchiare.

«Maddy? Mi sentì? Mi sentì...»

La donna in carriera alzò la mano in cui stringeva il guinzaglio e si ficcò il dito, con l'unghia lunga, nell'orecchio libero.

Clay rabbrividì temendo per il suo timpano.



 
 
Immaginò di disegnarla: il cane al guinzaglio, il completo e pantaloni, i capelli corti alla moda... e un rivolino (li sangue intorno al dito nell'orecchio. La Duck Boat sul margine e il portiere in secondo piano, tutte quelle cose Che danno verosimiglianza a una vignetta. Sì, era quel che el voleva.

«Maddy, non ti ricevo! Volevo solo dirti che mi sono fatta fare i capelli da quel nuovo... i miei capelli?... I MIEI...»

Il tizio sul furgone si protese a porgerle la coppa guar­nita: un Monte Bianco dalle pendici solcate da cioccolato e crema di fragola. La sua faccia ruvida di barba non rasa­ta era impassibile. Diceva che aveva già visto tutto quanto, e perlomeno due volte. Clay ne era certo. Nel parco qual­cuno gridò. Clay si girò di nuovo a guardare dicendo a se stesso che era stato un grido di gioia. Alle tre del pomerig­gio, un pomeriggio di sole al Boston Common, non pote­va non essere un grido di gioia. Giusto?
 


La donna disse a Maddy qualcosa di incomprensibile e richiuse il cellulare con un esercitato colpo del polso. Lo lasciò ricadere nella borsetta, poi rimase lì, come se aves­se dimenticato che cosa stesse facendo o forse persino do­ve si trovasse.

«Fanno quattro e cinquanta», disse il gelataio che anco­ra le porgeva pazientemente la coppa. Clay ebbe tempo di riflettere su quanto tutto in città fosse così schifosamente costoso. Forse lo aveva pensato anche la signora vestita da donna in carriera - almeno tale fu la sua prima impressio­ne - perché per un momento ancora non fece niente, restò lì a guardare la montagna di gelato e sciroppo gocciolante come se non avesse mai visto niente del genere.

Poi dal Common giunse un altro grido, questa volta non umano, un verso che stava a metà tra un guaito di sor­presa e uno gnaulio di dolore. Clay si girò a guardare e vi­de il cane che prima trotterellava con il fresbee in bocca. Era bruno, di dimensioni discrete, forse un Labrador, lui non conosceva bene i cani, quando aveva bisogno di dise­gnarne uno lo copiava da un libro.

Accanto a lui c'era un uomo in giucca e cravatta inginocchiato, lo teneva prigioniero per il collo e sembrava che gli stesse - no, non sto vedendo quello che credo di vedere, pensò Clay - masti­cando un orecchio. Poi il cane guai di nuovo e cercò di di­vincolarsi. L'uomo in giacca e cravatta lo tenne fermo, e sì, era proprio l'orecchio del cane, quello che aveva in bocca l'uomo, e mentre Clay continuava a guardare, glie­lo strappò dalla testa. Questa volta il cane lanciò un grido quasi umano e alcune anatre che nuotavano nel laghetto poco distante si alzarono in volo starnazzando.

«Rasi!» gridò qualcuno dietro Clay. Così gli era sem­brato. Poteva anche essere una parola di senso compiuto, però ciò che successe dopo lo spinse a propendere per rast: non un vocabolo, ma piuttosto un'espressione inarti­colata di aggressività.

Tornò a guardare il furgone dei gelati in tempo per ve­dere la signora tuffarsi sul bancone nel tentativo di ag­guantare il gelataio. Riuscì ad acchiappare un lembo della sua casacca bianca, ma bastò l'unico passo all'indietro che lo stupore lo spinse a compiere, perché lei perdesse la presa.


L'espressione refrattaria, perbene, pubblica -ella che Clay considerava la non-espressione da indossare in strada - era stata sostituita da una smorfia contratta ohe le aveva stretto gli occhi in due fessure e messo in mo-Ntrn entrambe le arcate dei denti. Il suo labbro superiore si ira rovesciato completamente all'infuori, scoprendone l'interno vellutato e rosa, intimo come una vulva. Il suo barboncino scappò nella via, trascinando dietro di sé il guinzaglio rosso con in fondo il suo cappio. Sopraggiunse una limousine nera e travolse il barboncino prima che fos­se arrivato al centro della strada. Un batuffolo un attimo prima; budella un attimo dopo.



 
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