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Il Ritorno del Maestro di Danza.



Lo Harjedalen, nel nord della Svezia, è una terra di foreste sterminate, i cui lunghi inverni sono a stento rischiarati dal bagliore della neve. E qui, in un casolare sperduto, che Herbert Molin, ex poliziotto in pensione, decide di ritirarsi.

E qui, un brutale assassino lo raggiunge per accompagnarlo in un ultimo, terribile ballo con la morte. Quando la polizia arriva sulla scena del delitto, trova delle impronte di sangue che sembrano tracciare i passi del tango.

Il trentasettenne Stefan Lindman, ispettore della polizia di Boras, un tempo collega della vittima, per non doversi confrontare con la malattia che lo tormenta si butta a capofitto nelle indagini e scopre ben presto l'inquietante passato nazista di Molin.

Esiste un legame tra la sua morte atroce e le sue convinzioni politiche? E qual è il ruolo della rete neonazista che, sempre più nitida, viene alla luce e sembra toccare lo stesso Lindman molto da vicino?

Sulle tracce dell'assassino, che dalla Sveziaportano in Germania e Argentina, la sua inchiesta ripercorre un pezzo doloroso della nostra storia. Lo attende una rivelazione sconvolgente, oltre all'amara consapevolezza che la follia che per anni devastò l'Europa non è affatto sepolta.

 L'aereo era decollato da un aeroporto militare nei pressi di Londra poco dopo le due del pomeriggio del 12 dicembre 1945. Piovigginava e faceva freddo. Di tanto in tanto soffiava­no forti raffiche che agitavano la manica a vento. Ma poi il vento cessò. L'aereo era un bombardiere quadrimotore Bristol Blenheim che aveva già partecipato alla battaglia d'Inghilterra nell'autunno del 1940. Era stato colpito più volte dai caccia tedeschi e costretto a un attcrraggio di fortuna. Ma era sem­pre stato possibile ripararlo e destinarlo nuovamente al com­battimento. Ora che la guerra era finita, veniva per lo più usato per il trasporto degli approvvigionamenti alle truppe inglesi di stanza nella Germania vinta e distrutta.

Proprio quel giorno, Mike Garbett, comandante a bordo, era stato informato che nel pomeriggio avrebbe trasportato un passeggero in una località di nome Bùckeburg, da dove sareb­be poi stato prelevato per fare ritorno in Inghilterra la sera suc­cessiva. Il maggiore Perkins, il suo diretto superiore, non l'a­veva informato di chi fosse quell'uomo né di quale incarico dovesse svolgere in Germania. E Garbett non aveva fatto domande. Anche se la guerra era finita, a volte aveva l'im­pressione che fosse ancora in corso. I trasporti segreti erano piuttosto frequenti.

Ricevuti gli ordini, era andato a sedersi in una delle barac­che dell'aeroporto insieme al copilota Peter Foster e al navi­gatore Chris Wiffin. Sul tavolo, erano aperte le carte geografi­che della Germania. L'aeroporto si trovava a poche miglia dalla città di HamSln. Garbett non ci era mai stato prima, ma Peter Poster lo conosceva. Dato che l'area circostante era pianeg­giante, il volo di avvicinamento non sarebbe stato difficile. L'u­nico inconveniente poteva essere la nebbia. Wiffin andò a par­lare con i meteorologi. Al suo ritorno informò gli altri che sulla Germania settentrionale e centrale nel pomeriggio e in serata era previsto ciclo sereno. Definito il piano di volo, avevano allora calcolato la quantità di carburante necessaria, poi ave­vano arrotolato le carte.

«Trasporteremo un solo passeggero» disse Garbett. «Ma non so chi sia.»

Non gli fecero domande, né Garbett se ne aspettava. Erano ormai tre mesi che volava con Poster e Wiffin. Erano uniti per­ché erano tra i sopravvissuti. Molti piloti della Raf erano morti durante la guerra, nessuno di loro sapeva quanti amici avesse perso. Essere ancora vivi era un motivo di sollievo, anche se accompagnato dal tormento di avere avuto salva la vita che i morti sul campo avevano disperatamente invocato.

Poco prima delle due, una berlina varcò i cancelli dell'aero­porto. Poster e Wiffin erano già a bordo del grande aereo, impegnati negli ultimi preparativi prima del decollo. Garbett aspettava sulla pista di cemento piena di crepe. Quando vide che il passeggero non era un militare ma un civile, corrugò la fronte. L'uomo che era sceso dal sedile posteriore era basso di statura e tarchiato. In bocca aveva un sigaro spento. Aprì il bagagliaio dell'auto e prese una valigia nera. In quello stesso momento il maggiore Perkins arrivò a bordo della sua jeep. L'uomo che doveva essere trasportato in Germania portava il cappello calcato sulla fronte e Garbett non riuscì a vedere i suoi occhi. Si sentiva a disagio. Quando il maggiore Perkins fece le presentazioni, il passeggero borbottò il proprio nome. Garbett non riuscì a capire cosa avesse detto.

«Possiamo decollare» disse Perkins.

«Ci sono altri bagagli?» chiese Garbett.

L'uomo scosse il capo.

«È meglio non fumare durante il volo» aggiunse Garbett. «L'aereo è vecchio. Potrebbero esserci delle fessure. Di solito i vapori della benzina si notano quando è ormai troppo tardi.» L'uomo non rispose. Garbett lo aiutò a salire a bordo. Den­tro, l'aereo era vuoto, fatta eccezione per tre scomode sedie di acciaio. L'uomo si mise a sedere posando la valigia fra le gambe. Garbett si chiese quali oggetti di valore stesse portan­do in Germania.

Una volta in volo, effettuò una virata a sinistra per immet­tersi nella rotta che Wiffin gli aveva mostrato. Poi raddrizzò l'aereo e, una volta raggiunta l'altitudine indicatagli, affidò i comandi a Poster. A questo punto si girò a osservare il pas­seggero. L'uomo aveva sollevato il bavero del cappotto e aveva calcato ancora di più il cappello sulla fronte.

Si chiese se stesse dormendo. Ma qualcosa gli diceva che era perfettamente sveglio.

L'attcrraggio all'aeroporto di Bùckeburg si svolse senza dif­ficoltà, nonostante il buio e la pista scarsamente illuminata. Un'auto scortò l'aereo fino ai margini di un lungo hangar, dove diversi veicoli militari erano in attesa. Garbett aiutò il passeggero a scendere dall'aereo. Ma quando allungò la mano per prendere la valigia, l'uomo scosse la testa e l'afferrò lui Stesso. Poi salì su una delle vetture e l'autocolonna partì • immediatamente. Wiffin e Poster erano scesi dall'aereo e vide-i'to i fanali posteriori dell'auto scomparire. Il freddo li faceva tremare.

«La cosa mi incuriosisce» disse Wiffin. «Meglio lasciar perdere» rispose Garbett. Poi indicò una jeep che stava avvicinandosi all'aereo. «Credo che dormiremo qui» disse. «Suppongo che quella sia per noi.»

 

 

Presero visione dei posti letto assegnati e cenarono. Poi, ni meccanici dell'aeroporto li invitarono a bere in una delle de della città sopravvissute ai bombardamenti. Wiffin e Iter accettarono, ma Garbett era stanco e rimase nella came-Una volta a letto, non riuscì ad addormentarsi. Disteso, liedeva chi fosse mai quel passeggero. Cosa aveva di così importante in quella valigia 8a non permettere a nessuno di toccarla?

Garbett borbottò fra sé nell'oscurità. Quell'uomo era in mis­sione segreta. Doveva semplicemente riportarlo in Inghilterra il giorno dopo. Nient'altro.

Guardò l'orologio. Era già mezzanotte. Sistemò il cuscino, e quando Wiffin e Poster tornarono verso l'una si era già addormentato.

Donald Davenport lasciò il carcere britannico che racco­glieva i prigionieri di guerra tedeschi poco dopo le undici di sera. Abitava in un albergo risparmiato dalla guerra, che ora veniva usato come alloggiamento per gli ufficiali britannici di stanza a Hameln. Sentiva la stanchezza pesargli addosso e aveva bisogno di dormire se voleva portare a termine la sua missione il giorno dopo senza commettere errori. Il sergente inglese MacManaman, che gli era stato assegnato come assi­stente, gli faceva provare una sensazione di inquietudine. A Davenport non piaceva lavorare con collaboratori inesperti. Molte cose potevano andare storte, soprattutto quando la mis­sione era così importante come quella che li aspettava.

Rifiutò una tazza di tè e andò direttamente nella sua came­ra. Si mise a sedere alla scrivania e iniziò a leggere gli appun­ti dell'incontro che si era svolto mezz'ora dopo il suo arrivo. Per prima cosa lesse il formulario battuto a macchina che gli aveva consegnato un giovane maggiore di nome Stuckford, il responsabile dell'intera operazione.

Spiegò il documento, sistemò la lampada della scrivania e lesse i nomi. Kramer, Lehmann, Heider, Volkenrath, Grese... Erano dodici nomi in tutto: tre donne e nove uomini. Studiò le informazioni accuratamente e prese appunti. Ci volle un po' di tempo perché, come sempre, il suo orgoglio professionale gli imponeva la massima scrupolosità. Posò la penna solo quan­do era quasi l'una e mezza. A quel punto si era fatto un'idea chiara di tutto. Aveva fatto le sue valutazioni e controllato tre volte di non avere trascurato nulla. Si alzò dalla sedia, si mise a sedere sul letto e aprì la valigia. Anche se sapeva che non dimenticava mai niente, controllò che tutto fosse a posto. Prese una camicia pulita, chiuse la valigia, poi si lavò con l'acqua fredda, che era tutto ciò che l'albergo poteva offrire.

Aveva sempre difficoltà ad addormentarsi. E fu così anche quella notte.

Quando bussarono alla porta poco dopo le cinque, Daven­port era già in piedi e vestito. Dopo una rapida colazione attra­versarono la cittadina buia e tetra e raggiunsero il carcere. Il sergente MacManaman era già sul posto. Era pallidissimo, e Davenport si chiese se sarebbe riuscito a portare a termine il suo compito. Ma Stuckford, che li aveva raggiunti e sembrava avere intuito la sua inquietudine, lo prese in disparte assicuran­dogli che, se anche poteva sembrargli insicuro, MacManaman non avrebbe avuto esitazioni.

Alle undici tutti i preparativi erano stati ultimati. Davenport aveva deciso di iniziare con le donne. Dato che le loro celle si trovavano nel corridoio più vicino al patibolo, avrebbero sicu­ramente sentito il rumore della botola che si apriva. E voleva risparmiarglielo. Non teneva conto dei reati commessi dai sin­goli prigionieri. La correttezza gli imponeva di iniziare con le donne.

Tutti quelli che dovevano essere presenti avevano preso , posto. Davenport fece cenno a Stuckford che, a sua volta, fece  un cenno a una delle guardie del carcere. Si udirono alcuni ordini e il rumore metallico delle chiavi, poi la porta di una Écella si aprì. Davenport rimase in attesa.

La prima a presentarsi fu Irma Grese. Per un attimo la [lente glaciale di Davenport fu colta da un senso di meravi-|ia. Come poteva quella ventiduenne bionda ed esile avere ustato a morte dei prigionieri nel campo di concentramento i Bergen-Belsen? Era poco più che una ragazzina. Ma quan-era stata pronunciata la sua condanna a morte, nessuno iva avuto dubbi. Era un mostro, doveva morire. La donna crociò lo sguardo di Davenport, poi lo alzò verso il patibolo. Le guardie la condus&ro su per la scala. Davenport le sistemò le gambe esattamente sopra alla botola e le mise il capestro attorno al collo, controllando allo stesso tempo che MacManaman non maneggiasse maldestramente la cintura di cuoio che le aveva stretto intorno alle gambe. Poco prima di metterle il cappuccio sulla testa, sentì la donna pronuncia­re con voce appena udibile una sola parola.

«Schnell!»

MacManaman fece un passo indietro e Davenport allungò la mano per raggiungere la leva che azionava l'apertura della botola. La donna sprofondò, Davenport sapeva di avere cal­colato esattamente la lunghezza della fune. Sufficientemente lunga da causare la rottura della vertebra del collo evitando però che la testa si staccasse dal corpo. Scese con MacManaman al di sotto dell'impalcatura che sosteneva il patibolo e rimosse il corpo, poi l'ufficiale medico inglese controllò il battito del cuore e constatò il decesso. Il corpo fu portato via. Davenport sapeva che nella dura terra del cortile del carcere erano state scavate delle fosse.

Tornò nuovamente al patibolo e controllò sui suoi docu­menti a quale lunghezza doveva regolare la corda destinata alla donna successiva. Quando tutto fu pronto, fece nuovamente un cenno a Stuckford, e poco dopo Elisabeth Volkenrath era sulla porta con le mani legate dietro la schiena. Era vestita come Irma Grese, con un vestito grigio che le scendeva fino a sotto le ginocchia.

Tre minuti dopo, anche lei era morta. 

 

 

Complessivamente, le esecuzioni capitali erano durate due ore e sette minuti. Davenport aveva calcolato due ore e un quarto. MacManaman aveva portato a termine il suo compito. Tutto era andato come previsto. Dodici criminali di guerra tedeschi erano stati giustiziati. Davenport ripose le corde e le cinture di cuoio nella valigia nera e si accomiatò dal sergente MacManaman.

«Bevi un bicchiere di cognac» disse. «Sei stato un bravo assi­stente.»

«Se lo sono meritato» rispose brevemente MacManaman. «Non ho affatto bisogno del cognac.»

Davenport lasciò il carcere insieme al maggiore Stuckford. Si chiese se sarebbe stato possibile fare ritorno in Inghilterra prima di quanto previsto. Era stato lui stesso a chiedere di ripartire in serata. Qualcosa poteva andare storto. Dodici ese­cuzioni capitali in un solo giorno non erano cosa abituale nep­pure per Davenport, il boia più esperto d'Inghilterra. Decise però di non modificare il piano concordato.

Stuckford lo accompagnò al ristorante dell'albergo e ordinò da mangiare. Presero posto in una sala in disparte. Stuckford aveva una ferita di guerra che lo costringeva a trascinare la gamba sinistra. Davenport provava simpatia per lui, soprattut­to perché non faceva domande inutili. Detestava le persone che chiedevano come ci si sentiva a giustiziare questo o quel cri­minale che, in un modo o nell'altro, era diventato famoso per quanto i giornali avevano scritto.

Mangiarono scambiandosi soltanto alcuni vaghi commenti

ÌSul tempo e sul fatto che gli inglesi avrebbero potuto aspettarsi qualche razione extra di tè o tabacco in vista dell'imminente fiatale.

Fu solo in seguito, bevendo il tè, che Stuckford commentò uello che era successo nella mattinata.

Il «C'è una cosa che mi fa pensare» disse. «La gente dimenti-Hl che avrebbe potuto benissimo accadere il contrario.» ^Davenport era incerto sul vero significato di quelle parole, non ebbe bisogno di fare domande. Stuckford stesso gli de la spiegazione.

JKUn boia tedesco che va in Inghilterra per giustiziare eri­gigli di guerra inglesi, fra i quali alcune giovani donne che L*"0 frustato a morte dei prigionieri in un campo di con-unento. La malvagità avrebbe potuto colpire anche noi, Icome ha colpito i tedeschi con Hitler e il nazismo.» ^ivenport non disse nulla. Aspettava il seguito. Ifessun popolo ha un'innata tendenza alla malvagità. Ma il *"i voluto che i nazisti fossero tedeschi. Nessuno mi farà mai credere che quello thè è successo qui non sarebbe ugual­mente potuto accadere in Inghilterra. O in Francia. O, perché no, negli Stati Uniti.»

«Capisco il suo ragionamento» rispose Davenport. «Ma non posso dire se lei abbia ragione o meno.»

Stuckford si riempì di nuovo la tazza.

«Il nostro compito è giustiziare i peggiori criminali» disse poi. «I peggiori criminali di guerra. Ma sappiamo anche che molti di loro riescono a fuggire. Come il fratello di Josef Leh-mann.»

Lehmann era stato l'ultimo che Davenport aveva impiccato quella mattina. Un piccolo uomo che era andato incontro alla morte con tutta calma, quasi assente.

«Aveva un fratello spietato» continuò Stuckford. «Ed è spa­rito nel nulla. Forse è già riuscito a usare uno dei canali di fuga dei nazisti. Può essere in Argentina o in Sudafrica, e in questo caso non lo prenderemo mai.»

Rimasero seduti in silenzio. Fuori pioveva.

«Waldemar Lehmann era un sadico senza paragoni» disse Stuckford. «Non solo fu smisuratamente spieiato con i prigio­nieri. Provava anche gusto a insegnare ai suoi subordinati l'ar­te della tortura. Avrebbe dovuto essere impiccato come il fra­tello. Ma non l'abbiamo trovato. Non ancora.»

Alle cinque Davenport ritornò all'aeroporto. Nonostante indossasse un cappotto pesante, sentiva freddo. Il pilota lo stava aspettando vicino all'aereo. Davenport si chiese a cosa stesse pensando. Poi salì sull'aereo e prese posto sulla sedia gelata, alzò il bavero del cappotto per proteggersi.

Garbett avviò i motori. L'aereo prese velocità e scomparve fra le nuvole.

Davenport aveva assolto al suo compito. Era andata bene. Non per niente veniva considerato il boia più abile d'Inghil­terra.

L'aereo sobbalzò passando con difficoltà attraverso una zona di vuoti d'aria. Davenport pensava a quello che gli aveva detto Stuckford riguardo ai criminali di guerra fuggiti. E pensava a Lehmann che provava gusto a insegnare agli altri i più raffinati metodi di tortura.

Si strinse il cappotto intorno al corpo. Avevano superato i vuoti d'aria. L'aereo era sulla rotta di casa, verso l'Inghilterra. Era stata una buona giornata. Aveva fatto il suo dovere senza intoppi. Nessuno dei prigionieri aveva tentato di opporre resi­stenza mentre veniva condotto sul patibolo. Nessuna testa si era staccata dal corpo.

Era soddisfatto. Adesso poteva pregustare i tre giorni liberi che lo attendevano. Poi avrebbe dovuto impiccare un assassi­no a Manchester.

Si addormentò sul sedile duro, nonostante il rumore assor­dante dei motori.

 

Mike Garbett continuava a chiedersi chi fosse quel passeg­gero.




 
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